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L’APPROPRIAZIONE INDEBITA COSTITUISCE ILLECITO DEONTOLOGICO PERMANENTE

Massima

L’appropriazione indebita costituisce illecito deontologico permanente. Di conseguenza, il relativo dies a quo prescrizionale va individuato nel momento cui: 1) il professionista ponga fine all’omissione ovvero effettui il comportamento positivo dovuto, oppure 2) sollecitato in tal senso, opponga il rifiuto affermando l’asserita legittimità del proprio contegno, con la precisazione che tale diritto debba essere rivendicato espressamente nei confronti dell’altra parte contrattuale (cliente/parte assistita) e non nelle difese contro la pretesa punitiva dello Stato esercitata con il processo penale ovvero in sede disciplinare; 3) in ogni caso, al fine di evitare una irragionevole imprescrittibilità dell’illecito stesso, un “limite alternativo” alla sua permanenza deve essere individuato nella decisione disciplinare di primo grado.

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Il caso e la decisione

Un Avvocato era accusato, tra i vari capi di incolpazione, anche di “essersi reso inadempiente ad obbligazioni estranee all’esercizio della professione nei confronti di Alfa S.p.a. e quindi di un soggetto terzo, compromettendo, per modalità e gravità, la dignità della professione, in violazione dell’art. 64 n. 2 CDF/14 (ex artt. 59 CDF/97), con condotta consistita nell’appropriarsi indebitamente della somma di € 75.000,00, ricevuta mediante rilascio di n. 2 assegni bancari tratti sul conto corrente acceso dal proprio assistito presso la Banca Beta, rispettivamente uno dell’importo di € 30.000,00 e uno di € 45.000,00, privi di data e di indicazione del beneficiario, incassandoli mediante negoziazione sul proprio conto personale presso altra Banca, violando l’impegno assunto nei confronti della parte assistita di provvedere egli stesso a compilarli ed a versarli nelle casse sociali della Alfa S.p.a., di cui lo stesso Avvocato ricorrente era componente del Consiglio di Amministrazione, a saldo del prezzo (per il 75% del totale) della partecipazione azionaria costituita da n. 100 azioni ordinarie del valore nominale di €1.000,00 cadauna, per un totale di €100.000,00 della predetta Alfa S.p.a.”.

In estrema sintesi, il Consiglio Distrettuale di Disciplina aveva condannato l’Avvocato ricorrente poiché questi aveva formato e prodotto in giudizio, nel proprio interesse, una serie di false prove volte a dimostrare la sussistenza di un suo inesistente credito verso la controparte, causandole così un ingiusto profitto costituito dall’appropriazione indebita della somma sopra menzionata.

Nel giudizio avanti al Consiglio Nazionale Forense, oltre alle difese nel merito della regiudicanda, era stata eccepita la prescrizione dell’azione disciplinare e pertanto, nella sentenza in commento, sono stati affermati e ribaditi alcuni importanti canoni in tema.

Il Collegio ha rilevato innanzitutto che, a differenza di quanto dispone in via generale l’art. 2938 c.c., la prescrizione nel giudizio disciplinare può anche essere rilevata d’ufficio, stante il carattere pubblicistico della materia e l’interesse generale, che fa capo allo Stato e agli Enti esponenziali quali gli Ordini professionali, sotteso all’accertamento della responsabilità disciplinare.

La disciplina speciale della prescrizione è contenuta nell’art. 56 della legge professionale (l. n. 247/2012) a norma del quale:

            “1. L’azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto.

            “2. Nel caso di condanna penale per reato non colposo, la prescrizione per la riapertura del giudizio disciplinare, ai sensi dell’articolo 55, è di due anni dal passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna.

            “3. Il termine della prescrizione è interrotto con la comunicazione all’iscritto della notizia dell’illecito. Il termine è interrotto anche dalla notifica della decisione del consiglio distrettuale di disciplina e della sentenza pronunciata dal C.N.F. su ricorso. Da ogni interruzione decorre un nuovo termine della durata di cinque anni. Se gli atti interruttivi sono più di uno, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi, ma in nessun caso il termine stabilito nel comma 1 può essere prolungato di oltre un quarto. Non si computa il tempo delle eventuali sospensioni”.

Il caso in questione riguarda un illecito permanente. L’incolpato aveva infatti ricevuto delle somme di denaro di cui si era appropriato, rifiutandosi di restituirle. In tali evenienze, fin tanto che l’agente ricusa la retrocessione del denaro, l’offesa continua a produrre i suoi effetti pregiudizievoli nel tempo, senza che possa dirsi intervenuta la consumazione dell’illecito, pur già perfezionatosi, e così la decorrenza del termine prescrizionale.

Al fine di evitare la protrazione sine die della permanenza, la giurisprudenza ha individuato alcuni criteri correttivi.

Uno di essi consiste nel ritenere che la pronuncia di condanna del Consiglio Distrettuale di Disciplina costituisce causa di cessazione della permanenza.

Tale canone è residuale rispetto agli altri due, parimenti individuati dal diritto pretorio, che sono: 1) la volontaria cessazione dell’offesa, che si verifica con la restituzione della somma indebitamente trattenuta; 2) l’interversione del possesso (art. 1141, co. 2 c.c.) che interviene quando l’agente opponga al rivendicante un legittimo titolo per l’appropriazione dell’importo, e non è sufficiente a tal fine allegare la legittimità del proprio comportamento nel procedimento penale o disciplinare.

Nel caso in questione, in definitiva, l’eccezione di prescrizione è stata respinta in quanto non era ancora trascorso il termine massimo di prescrizione tra la decisione di condanna di primo grado e il momento in cui interveniva la conferma di essa da parte del Consiglio Nazionale Forense. D’altra parte, non era intervenuta nemmeno la volontaria cessazione dell’illecito, né l’interversione del possesso.

https://www.codicedeontologico-cnf.it/GM/2024-38.pdf

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